El cason soto l'ombra del morer-Il Cason di Piavon

Il Cason di Piavon

El cason soto l'ombra del morer

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Articolo, di Irene Pavan, tratto dalla rivista "In piazza. San Donà e dintorni: un arcipelago da riscoprire".

Facile mostrare ai posteri le glorie di un passato di cui andiamo fieri per la sua bellezza, ricchezza e potenza.

E facile conservare palazzi e ville riboccanti di quella storia che ci piace, romantica e importante, della quale pensiamo di essere eredi. In verità, escludendo qualche anima fortunata, le nostre radici non sono nascoste dentro le mura affrescate delle grandi dimore signorili, bensì dentro le cucine nere di fuliggine di case o casoni. Lì, sora el pajòn, unica alcova senza privacy, abbiamo tutti i nostri natali. Certo la miseria fa spavento ed è comprensibile che alcuni simboli di quel passato difficile siano stati volutamente dimenticati, cancellati come fossero un'onta a macchiare il nostro presente. Sono convinta invece che come ogni lavoro anche il più umile abbia la sua dignità, così anche ogni casa, ogni perimetro chiuso che abbia contenuto una vita e una famiglia abbia in fondo il suo onore.

Dei casoni veneti non rimane più traccia, se non in qualche sparuta esperienza turistica, cancellati dalla stessa terra della quale erano fatti e dalla stessa mano che li aveva costruiti più forti di quanto si possa immaginare.

Se nel 1930 la Prefettura di Venezia non avesse dato ordine di sopprimere, per evidenti ragioni sanitarie e di sicurezza, le abitazioni con i tetti in paglia, qualcuno degli oltre duemila casoni veneti sarebbe giunto fino a noi alla veneranda età di trecento anni o più. Il casone veneto (tipo trevigiano) con la sua tipica struttura in mattoni al piano terra senza fondamenta ed il tetto coperto di strame, era una costruzione essenziale che nasceva dai materiali presenti nell'ambiente a cui esso stesso si modellava, grazie all'antico principio di bioedilizia secondo il quale ci si arrangia con ciò che si ha. Il casone aveva il pavimento di terra battuta, al piano terra di solito c'erano tre o quattro stanze tutte con accesso esterno: camera, cucina, magazzino per gli attrezzi e ricovero per gli animali. Il sottotetto fatto di travi in legno e coperto di strame fungeva da fienile o granaio, tra la camera e la cucina c'era il focolare, inizialmente senza camino, il fumo usciva dalle piccole finestre, dalla porta o dalle fessure del tetto, tranne quando c'era bassa pressione e rimaneva imprigionato dentro rendendo l'aria irrespirabile. Ma pensare che il casone fosse una baracca improvvisata è scorretto ed il fatto che alcuni esemplari siano giunti a noi dopo diversi secoli ne è la prova. La disposizione della facciata principale era sempre a Sud per sfruttare luce e calore del sole; il camino era solito messo a sud-ovest per evitare che le faville bruciassero il tetto mosse dai forti venti invernali da nord – est; il tetto coperto da strame o da cannelle prevedeva una tecnica precisa per il fissaggio e l’inclinazione dei mazzetti che lo rendeva solido ed impermeabile. Senza contare che le stesse cannelle dovevano essere tagliate a settembre col calante di luna, mature ma non più alte di due metri e preferibilmente crescere in zona salmastra, andavano posizionate con il alto e le punte in basso per facilitare lo scolo dell'acqua. Se fatta bene la copertura durava quattro anni, poi si assottigliava e bisognava aggiungerne una sopra, fino ad arrivare a quei tetti dalle linee gonfie e morbide delle foto d'epoca. Questa la teoria, la pratica vuole che oggi sia pressoché impossibile trovare qualcuno in grado di costruire un tetto in tradizionale. Il casone ospitava la vita, dalla nascita alla morte, momenti felici e, più momenti duri, le famiglie cambiavano a seconda degli anni e decisioni dei padroni, la vita era poca cosa e molte volte non durava nemmeno l'attimo di un vagito. E difficile trovare qualcosa di romantico dentro a quelle povere mura, anche a volerle guardare con il distacco dei decenni trascorsi, quelle poche cose parlano di una senza scampo. Eppure fanno tenerezza i giochi abbandonati (una fionda o un cerchio sbilenco), la trave del soffitto più nera delle altre perché sotto c'era il larin, la forza che mettevano le donne nel fare la lasciva per lavare i quattro strazzi, il chiodo sul muro per appendere il paeltò che era uno solo e si doveva tener di conto, el comodin che aveva viaggiato con la famiglia l’ultimo San Martin. Per chi volesse fare un tuffo nel passato, a Piavon, in un contesto agreste autentico, all’ombra del secolare morer, si trova di guardia l'ultima sentinella originale.

Il recupero e la valorizzazione del Cason di Piavon si basa su ricostruzioni storiche e documentali molto dettagliate e precise, al suo interno raccoglie un piccolo museo etnografico con reperti della vita contadina. Indispensabile per apprezzare la visita la compagnia di uno degli Amici del Cason e l'umiltà di riuscire a trovare il valore umano contenuto in ogni singola, semplice cosa custodita tra quelle antiche mura.

Il posto è una fotografia vivente di un mondo scomparso del quale si sono pure dimenticate le parole, modi di dire che non hanno più un loro posto nella nostra vita. Sono però fortunata e li trovo anche un piccolo tesoro: bissabògoea, buànzhe, caìzen, coadòr, ingrotì, smàra, repèton... una raccolta di parole vecchissime (ad opera di Giancarlo Bucciol 2015) che mi riportano alle estati passate a casa dei nonni, quando l'italiano era una lingua che si lasciava a scuola.

È quindi vero che dentro al casone c'è un po' di ognuno di noi.